Cecco d’Ascoli 1269-1327

Cecco d’Ascoli 1269-1327
No Comment

Oggi, 690 anni fa, il 16 settembre 1327, moriva arso sul rogo a Firenze il medico, poeta, astrologo e filosofo Francesco Stabili, meglio conosciuto come Cecco d’Ascoli[1].

Nato da una famiglia di notai, fu figlio di Maestro Simone degli Stabili e per qualche tempo ricoprì anche lui l’incarico notarile. Alcuni, come l’umanista jesino Angelo Colocci (1474-1549), lo danno nato nella seconda metà di ottobre del 1269 a Ancarano nella diocesi di Ascoli, oggi in provincia di Teramo.

Amico di Dante Alighieri e di Guido Cavalcanti (con quest’ultimo intraprese anche un avventuroso pellegrinaggio a Santiago de Compostela), come loro apparteneva alla confraternita iniziatica dei “Fedeli d’Amore”, misteriosa (almeno nei suoi supposti intenti esoterici) compagnia ghibellina di letterati e poeti legata ai Templari sulla quale molti hanno ricamato ma della quale poco sappiamo; quando Dante si staccò da essa, ciò che creò non poco malumore e critiche nei suoi riguardi da parte degli altri confratelli, Cecco imbastì una polemica col suo vecchio amico, gli strascichi della quale faranno poi la loro comparsa, e nemmeno tanto velatamente, nelle opere dello stesso Cecco.

Dopo gli studi di Medicina a Bologna ottenne nel 1320 la cattedra di Medicina nello stesso ateneo bolognese, alla quale si aggiunse, nel 1322, quella di Astrologia, commentando il “De sphaera” del Sacrobosco alle matricole.

Sempre a Bologna, il 16 dicembre 1324, venne accusato di eresia, cioè di fare discorsi blasfemi (p.e. legando le vicende e i miracoli di Gesù a precise configurazioni astrali, o pronosticando l’imminente arrivo dell’anticristo), ed ebbe anche un processo in cui gli venne proibito di insegnare Astrologia e gli furono sequestrati tutti i libri di materia astrologica.
La condanna però durò poco visto che Cecco, grazie anche alle proteste degli studenti, venne non solo da lì a qualche mese reintegrato nell’insegnamento ma fu anche promosso da lettore di Astrologia straordinaria a quella ordinaria[2].

Alcune difficoltà economiche e soprattutto politiche lo fecero però decidere che forse era meglio allontanarsi dalla guelfa Bologna, che peraltro di lì a poco si sarebbe disfatta del proprio sistema repubblicano per darsi al Papa; scelse così di recarsi a Firenze (1325), viste anche le sue simpatie ghibelline, accettando l’incarico di astrologo e medico di corte del duca Carlo di Calabria, a quel tempo signore della città.

Si racconta che nella primavera del 1327 venne interpellato dal duca sul futuro della figlia Giovanna di appena un anno (la futura regina Giovanna I di Napoli), e che Cecco se ne uscì dicendo che ella avrebbe avuta una vita tormentata, lussuriosa e disordinata, la qual cosa fece profondamente infuriare il duca che non accettò questo affronto fatto alla sua famiglia: le quotazioni di Cecco scesero ai minimi livelli mentre crebbero, lasciato solo dal duca, gli attacchi di nemici e invidiosi; questo fu anche l’inizio della sua fine[3].

Fra le sue opere, oltre al “De principiis astrologiae” di Alcabitius[4], abbiamo il “De eccentricis et epicyclis”, piccolo libretto di nozioni astronomiche, probabilmente il testo di una lezione di Astronomia tenuta nel 1324 allo Studio di Bologna, scoperto sempre da Giuseppe Boffito nel codice 984 della Biblioteca Palatina di Parma[5].
Abbiamo poi “Commentarii in sphaeram Joannis de Sacrobosco”, scritto per gli studenti di Astrologia dell’ateneo bolognese e pubblicato la prima volta a Basilea nel 1485, opera che per alcuni concetti lì esposti relativi ai demoni e a certi incantesimi fu presa anche come prova contro di lui al processo che subì a Firenze.

Ma soprattutto Cecco è l’autore de “L’Acerba[6], pubblicato per la prima volta a Brescia nel 1473 per i tipi di Tommaso Ferrando e successivamente in moltissime altre edizioni, quasi cento, fino al 1581, anno della Controriforma e inizio dell’oblio dell’opera che non venne più ristampata fino al 1820[7].
In questo poema enciclopedico in sestine, composto da cinque libri (l’ultimo incompiuto per la sua morte), Cecco parla dell’ordine dei cieli, delle eclissi, della natura umana, della vanagloria, dei simboli della vita, degli animali, dell’amore, della fisica. Da ogni pagina traspare il suo credo astrologico, la sua spiritualità ma anche il suo acume scientifico, indagatore, in special modo quando spiega fenomeni come, per esempio, l’arcobaleno, anticipando le leggi sulla rifrazione della luce, spiegando poi che lo si può riprodurre con dell’acqua e dell’olio; oppure quando parla del tuono e del fulmine, dove la luce arriva a noi prima del suono essendo il nostro vedere più «ardito» del sentire; o quando tratta della Luna e della sua influenza sul sangue: «Così degli animati muove il sangue / Fra luce e notte, sì come fa il mare».

Nota poi è la polemica fra Cecco e l’amico Dante Alighieri, espressa altresì in quest’opera e conseguente al diverso modo d’intendere le cose, Dante accusato di nascondere la verità tra i veli dell’allegoria, nelle favole:

Qui non si canta al modo delle rane, / Qui non si canta al modo del poeta / Che finge, immaginando, cose vane; / Ma qui risplende e luce ogni natura / Che a chi intende fa la mente lieta. / Qui non si sogna per la selva oscura […] / Lascio le ciance e torno su nel vero / Le favole mi fur sempre nemiche (L’Acerba, IV, 12).

Nonostante sia stato dipinto per molto tempo solo come un mago e un necromante, Cecco fu un grande astrologo e un eminente studioso; certamente poco accorto e diplomatico, non avvezzo agli intrighi di corte o di quelli di falsi amici e allievi, candido nella sua ricerca della verità (seppur tormentato); uno spirito indipendente, mai domo, certo polemico e ruvido, e forse questo l’ha tradito.

Condannato nuovamente per eresia dietro anche, sembra, a false accuse del medico Dino del Garbo dovute più che altro a invidia nei suoi confronti per essere stato preferito come medico personale dal duca Carlo di Calabria, accuse che trovarono poi la strada facile visti i precedenti di Cecco con l’Inquisizione bolognese, morirà arso vivo sul rogo appunto il 16 settembre 1327.
Questi alcuni stralci della sentenza ordinata dall’inquisitore francescano, il fiorentino Accursio Bonfantini che tenne tale carica dal 1326 al 1329:

Al nome di Dio. Amen.
Noi frate Accusio fiorentino dell’ordine de’ frati minori conventuali per autorità apostolica Inquisitore dell’Eresia nella provincia di Toscana facciamo palese a tutti li buoni christiani come esercitando l’offizio commessoci dello Inquisitore: precedente la fama publica o per dir meglio infamia sparsa da molte persone degne di fede ci venne all’orrecchio, che Maestro Cecco figliuolo di Maestro Simone Stabili da Ascoli andava spargendo per la città di Firenze molte eresie con danno e pericolo non picciolo dell’anima sua e degli altri; e, quello che è cosa più brutta, dava a leggere per le scuole publiche un certo suo eretico e brutto libretto fatto da lui sopra la sfera celeste, e tutto operava persuadendo glielo il Diavolo per sua dannazione e contro al giuramento altre volte da lui dato ritornando come il cane al vomito
[…].
Ancora disse aver insegnato, che per aver Christo nella sua natività il segno della libra et il decimo grado di quella per Ascendente, la sua morte doveva esser giusta e mediante la predicazione, e che doveva morire di quella morte, ch’ei morì, e perche Christo aveva nell’angolo della terra [la cuspide del Fondo Cielo, N.d.A] il segno del capricorno, doveva nascere in una stalla, e perche aveva lo scorpione nella seconda casa, doveva essere povero, e perche aveva Mercurio nel segno di Gemini nella propria casa e nella nona parte del cielo, doveva avere una scienza profonda data sotto metafora […].
[…] riprovando i suoi ammaestramenti senza dottrina composti e donandogli; doversi finalmente abbrucciare detto Maestro Cecco, e così ordiniamo e comandiamo […].
La sopradetta sentenza e relazione fu data e fatta per il detto Inquisitore sedendo per tribunale nel coro della chiesa de’ frati minori di Firenze
[la chiesa di Santa Croce, N.d.A] presente M. Jacopo Vicario e i suoi assessori, soldati e famiglia riceventi il prefato M. Cecco alla presenza del popolo quivi ragunato nell’anno dell’incarnazione del nostro Signore 1327 ind. X di 15. Sept. presente detto M. Cecco […][8].


[1] Ma la data corrisponde al nostro 23 settembre.
[2] FABRIZIO BÒNOLI, DANIELA PILIARVU, “I Lettori di Astronomia presso lo Studio di Bologna dal XII al XX secolo”, CLUEB, Bologna 2001, p. 61.
[3] «La ’nvidia a me à dato sì de morso, / Che m’à privato de tutto mio bene»: così Cecco scrive in un sonetto indirizzato all’amico Cino da Pistoia probabilmente scritto dopo il processo bolognese del 1324 (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Cod. Magliabechiano, 991. CL. VII). Cfr. “L’Acerba”, con prefazione, note e bibliografia di Pasquale Rosario, Carabba, Lanciano 1916, Appendici, III, p. 154. Per quanto riguarda i giudizi di Cecco relativi al Tema natale di Giovanna, c’è da dire che in effetti ella, salita al trono di Napoli all’eta di sedici anni, ebbe una vita assai tormentata sia dal lato affettivo e privato che sociale e di gestione del Regno. E però fu donna aperta e generosa, colta e raffinata. Morì assassinata per ordine del cugino, Carlo di Durazzo, il 12 maggio 1382.
[4] Quest’opera venne ri-scoperta dal letterato e bibliografo barnabita Giuseppe Boffito (1869-1944) nel codice 2366 della Biblioteca Apostolica Vaticana (ff. 133-140); cfr. G. BOFFITO (a cura di), “Il commento di Cecco d’Ascoli all’Alcabizzo, pubblicato e illustrato dal prof. G. Boffito”, in «La Bibliofilìa, Rivista dell’Arte Antica in Libri, Stampe, Manoscritti, Autografi e Legature», Olschki, Firenze 1904-1905, Vol. V, disp. 11-12, Febbraio-Marzo 1904, pp. 333-349; Vol. VI, disp. 1, Aprile 1904, pp. 1-6 – disp. 4-6, Luglio-Settembre 1904, pp. 111-124 – disp. 9-10, Dicembre-Gennaio 1904-1905, pp. 283-290.
[5] Cfr. G. BOFFITO (a cura di), “Il De eccentricis et epicyclis. Nuovamente scoperto ed illustrato dal p. P. G. Boffito”, Stab. Tip. Aldino dir. da L. Franceschini, Firenze 1905.
[6] Alcuni pensano che il titolo originale possa essere stato La Cerva, animale mistico e simbolo dell’Anima che anela a Dio, simbolo di rigenerazione vitale, inizialmente animale sacro agli dèi della luce (Apollo, Atena, Diana), e soprattutto simbolo dei “Fedeli d’Amore”. Altri intendono invece la contrapposizione fra la vita di questo mondo, che è “acerba”, in confronto a quella ultraterrena che è “vera” (cfr. CECCO D’ASCOLI, “L’Acerba (Acerba etas)”, a cura di M. Albertazzi, La Finestra Editrice, Lavis (TN) 2002).
[7] Fra i più antichi codici de “L’Acerba” citiamo quelli presenti nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze (collocazioni: Plut.40.52 e Plut.89sup.111), del XIV secolo.
[8] “Processo, sentenza et morte di Maestro Cecco Stabili da Ascoli seguita in Firenze il dì 15 aprile 1327. (Biblioth. Magliabech. 459.)“. Si trova in: JOHANN JOSEPH IGNAZ VON DÖLLINGER, “Geschichte der gnostisch-manichäischen Sekten im Früheren Mittelalter“, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München 1890, documento XLV, pp. 585-596.

Leave A Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *