Gilgamesh o l’eroe lungo la via del Sole

Gilgamesh o l’eroe lungo la via del Sole
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Un mio articolo inedito


La più antica storia che ci è pervenuta dal passato è l’Epopea di Gilgamesh, databile al terzo millennio a.C. Siamo nella Terra tra i Due Fiumi, appunto la Mesopotamia.

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, continuando gli scavi che avevano portato alla luce gli stupendi palazzi di Ninive, l’antica capitale dell’impero Assiro, due archeologi, il britannico Austen Henry Layard (1817-1894) e il suo assistente l’iracheno Hormuzd Rassam (1826-1910), quasi per caso notarono due vani annessi al palazzo.

Lì vi trovarono la biblioteca del re Assurbanipal III (668-627 a.C.), e in essa 20.000 testi su argilla che trattavano di matematica, astronomia, medicina, filosofia, e insieme ad essi 12 massicce tavole d’argilla che narravano le gesta di un uomo vissuto prima e dopo la grande catastrofe di un diluvio, GILGAMESH, quinto re della città di Uruk, la più grande città della Babilonia meridionale. La biblioteca di Ninive aveva restituito all’umanità non solo la prima grande epopea della storia del mondo, ma addirittura una più antica versione del Diluvio di quella descritta nella Bibbia.

La vicenda si divide in vari episodi: l’incontro di Gilgamesh con Enkidu, che diventa suo amico; un viaggio nella foresta per uccidere un mostro; il disprezzo per una dea; la morte del compagno; la ricerca dell’immortalità.
Questa storia, come ci dice la tavoletta IX nella colonna 4, si svolge “lungo la via del sole”, la qual cosa a un archeologo o a uno storico può non dire niente, ma a un astrologo dice che lo scenario di tutta la vicenda sta in cielo, dato che “la via del sole” altri non è che l’ECLITTICA.
Infatti, le gesta e i luoghi del racconto (di questo come di altri racconti mitici) vanno inseriti, ricercati, non su di un mappamondo ma in alto nel cielo, e precisamente sulla fascia dell’eclittica, ché è quello il luogo ove appunto si svolgono gli eventi mitici e dove ha sede il motivo che sta alla base di detti eventi, ovvero l’obliquità dell’eclittica, cioè quella situazione astrale dovuta al fatto che la Terra è inclinata, rispetto al piano equatoriale, di 23°30’. Tale inclinazione fa sì che l’asse terrestre giri come una trottola, così se prolunghiamo questo asse fino al polo celeste nord, questo descrive intorno al suddetto polo un cerchio; il tempo occorrente a questo asse prolungato per ruotare intorno al polo settentrionale dell’eclittica è di circa 25.920 anni, durante i quali il suo orientamento passa da una stella all’altra, stella che noi chiamiamo Polare (dal greco polos, cioè asse, perno): nel 6.000 circa a.C. la Stella Polare era la iota della Costellazione del Dragone; nel 3.000 circa a.C. era Thuban l’alfa della stessa Costellazione; ai tempi della Grecia Classica era Kochab, la beta dell’Orsa Minore; oggi è l’alfa dell’Orsa Minore (che noi chiamiamo Polaris), mentre nel 4.000 d.C. sarà Vega, l’alfa della Costellazione della Lira.

Questo fenomeno è detto Precessione degli Equinozi: i punti equinoziali (e quindi anche quelli solstiziali) non rimangono fermi là dove dovrebbero stare, ma si muovono lungo l’eclittica in direzione opposta a quella dell’ordine dei Segni. A tale fenomeno gli antichi attribuivano l’ascesa e la caduta delle varie Ere (o Età) del mondo. Si diceva infatti che la costellazione zodiacale che sorgeva a oriente prima del sole (levata eliaca) segnava il luogo ove il sole sostava. Tale costellazione veniva chiamata “pilastro del cielo” e dava il nome alle varie Età del Mondo (della durata di 2.160 anni).

Nel 6.647 a.C. l’equinozio di primavera era in Gemelli: era quindi questa la costellazione pilastro; si parlerà allora di ERA DEI GEMELLI; poi si passò lentamente al TORO, quindi all’ARIETE, infine ai PESCI,

dove si trova tuttora e dove continuerà a rimanere per ancora un po’ di tempo. La nostra Era è segnata dall’avvento di Cristo il Pesce […]. L’Età precedente, quella dell’Ariete, era stata annunziata da Mosè disceso dal Sinai ‘con le due corna’, cioè incoronato con le corna dell’Ariete, mentre il suo gregge disobbediente si ostinava a danzare intorno al ‘vitello d’oro’, meglio inteso come un ‘toro d’oro’, il Toro. Così, erano i cieli nelle loro rivoluzioni a dare la chiave […]. Ciò che si muoveva di moto proprio in cielo – i pianeti con le loro settimane e i loro anni – assumeva una gravità sempre più maestosa. Essi erano le Persone dal Vero Divenire: lo zodiaco era il luogo degli accadimenti reali […] [1].

Quindi, quando sentiamo parlare di diluvi, di terra piatta o quadrangolare, di terra emersa o di acque di sotto, ciò si riferisce ad avvenimenti e luoghi che non sono di questo mondo ma che riflettono regole, fenomeni cosmici, vicende e sconvolgimenti astrali: ogni diluvio, quindi, può essere visto come evento distruttore di un’Era per far posto a quella successiva. I diluvi descritti dai Greci, i quali erano a conoscenza di ben tre distruzioni successive (e pensiamo a quello di cui sono protagonisti Deucalione e Pirra), si presentano come miti astrali in cui si vede morire un mondo inteso come un’Età del mondo.

Molte tradizioni collegano questa o quella catastrofe con elementi o figure stellari; citiamo un esempio preso dalla tradizione leggendaria ebraica di epoca tarda, riportata da Frazer:

Ora, il diluvio fu causato dall’incontro delle acque maschili del cielo con le acque femminili che sgorgavano dalla terra. I buchi nel cielo da cui sfuggirono le acque di sopra erano stati fatti da Dio quando tolse alcune stelle dalla costellazioni delle Pleiadi; e per fermare quella fiumana di pioggia dovette poi turare i due buchi con un paio di stelle prese in prestito dalla costellazione dell’Orsa. È per questo che, ancora oggi, l’Orsa corre dietro alle Pleiadi: vuole indietro i suoi piccoli, ma non riuscirà mai ad averli fino all’Ultimo Giorno.

Per quanto riguarda il diluvio vissuto da Deucalione e Pirra, le sue acque si ritrassero grazie al suono della buccina (antico strumento musicale formato da una conchiglia tortile) di Tritone, strumento che era stato inventato da Aigokeros, cioè il Capricorno, il signore del solstizio d’inverno quando era la costellazione dell’Ariete a ‘portare’ il sole (dal che si dovrebbe dedurre che questo diluvio servì come passaggio dall’ERA DEL TORO a quella dell’ARIETE, ciò che lo daterebbe al 2.350 a.C.).

Ricapitolando, la terra come luogo in cui si svolgono le vicende mitiche non è il nostro globo: terra indica qui il piano che si forma collegando i quattro punti dell’anno segnati dagli equinozi e dai solstizi, ovvero l’eclittica: i quattro angoli, cioè le costellazioni che sorgono insieme al sole agli equinozi e ai solstizi, sono i punti che determinano una terra; così ogni Età del mondo ha la sua terra, ed è proprio per questo che si parla di fine del mondo: quando i punti dell’anno vengono determinati da un nuovo gruppo di costellazioni zodiacali portate dalla Precessione degli Equinozi, sorge una terra nuova. Quindi il cielo come luogo di svolgimento delle vicende mitiche, lo Zodiaco come terra in cui nascono i miti, in cui si muovono Dei ed Eroi, e fra questi, appunto, GILGAMESH, per due terzi dio e per un terzo uomo.


La Storia di Gilgamesh

Gilgamesh

Gilgamesh è un re dispotico, crudele, violento. Gli uomini di Uruk, annichiliti dalla sua arroganza e malvagità, si rivolgono alla dea Ninsun, madre di Gilgamesh, pregandola di creare un suo doppio, cioè qualcuno che gli sia pari per forza fisica e impetuosità di cuore. Gilgamesh cesserà di essere un Signore-Padrone dispotico il giorno in cui avrà trovato un suo pari, che sia nel contempo suo rivale e amico, così profetizza la dea che crea perciò Enkidu, dal corpo villoso e dai lunghi capelli femminili. Enkidu è il contrario di Gilgamesh. Semiselvaggio, vive e si accoppia con gli animali, vivendo nelle grotte o nella foresta. Dotato di forza sovrumana, distrugge tutto quanto incontra.

Un giorno un cacciatore lo incontra nella foresta, e rimane talmente spaventato che subito corre dal suo re a raccontargli l’accaduto. Udite le parole del cacciatore, Gilgamesh decide che l’unico modo per ammansire quel mezzo animale è allontanarlo dalla sua condizione di bestia, dalla sua selvatichezza. Per far questo è necessario che venga sedotto, che conosca l’amore di una donna. Quindi Gilgamesh manda da Enkidu una cortigiana con l’incarico di sedurlo.

Ella si unisce a lui per sette giorni e sette notti e finalmente riesce a farne un uomo. “Enkidu – disse la donna – sei divenuto bello come un dio, perché vuoi continuare a errare in compagnia degli animali? Suvvia, vieni con me, che io ti condurrò a Uruk. È lì, appunto, che Gilgamesh infuria come un toro e tiene sotto i suoi piedi tutti gli uomini“. “Guidami alla città di Uruk – rispose Enkidu – e in quanto a Gilgamesh e al suo crudele dominio, io muterò ben presto lo stato delle cose. Io lo provocherò e lo sfiderò, e gli mostrerò, una volte per tutte, che i giovani campagnoli non sono degli imbecilli“.

L’incontro tra i due avviene alla porta del tempio. Gilgamesh e Enkidu si azzuffano come tori selvaggi, ma è il re che inaspettatamente ha la peggio, e comprende così di aver incontrato il suo degno avversario. La profezia della dea si avvera, e il risultato finale della lotta fu l’inizio di una lunga e tenera amicizia.

Passa il tempo, ed Enkidu nella nuova vita civile non si trova bene, e giorno dopo giorno si infiacchisce e intristisce sempre più. Allora Gilgamesh propone un’impresa: andare nella Foresta di Cedri a sfidare e uccidere il mostro Khumbaba. Giungono così presso la foresta foltissima, ai margini della quale si trova un’immensa porta; Enkidu la schiude, ma il grande portale, girando sui cardini, si richiude di colpo schiacciandogli la mano. Per dodici giorni Enkidu giace gemendo per il dolore, pensando di desistere dall’impresa. Ma Gilgamesh lo sprona, e i due entrano nella foresta dalla grande porta. Finalmente incontrano, sfidano e vincono il mostro Khumbaba. Gilgamesh però vuole risparmiargli la vita, mosso a compassione dai suoi lamenti, ma Enkidu insiste nell’ucciderlo, al che tutti e due sguainano le spade e staccano la mostruosa testa dal corpo gigantesco.

Gilgamesh_Ishtar

Al loro ritorno a Uruk, vittoriosi e festeggiati da tutti, si fa avanti la dea Ishtar, che ammaliata dall’impresa di Gilgamesh e più che altro dalla sua bellezza, gli chiede di giacere con lei diventando suo sposo. Ma Gilgamesh, sdegnosamente la rifiuta, al che la dea, furibonda, gli manda incontro il Toro Celeste, il cui galoppo è foriero di tempeste e terremoti e la cui venuta procura sette anni di siccità; ma Enkidu accorre in soccorso dell’amico, afferra una coscia e il membro del Toro Celeste, li strappa con un colpo violento e li getta in faccia alla dea., che umiliata e sconfitta se ne torna al suo cielo. Ma Ishtar ora fa le sue profferte a Enkidu, che lui sdegnosamente rifiuta, allora la dea lo punisce facendolo ammalare. Giorni e giorni dura l’agonia di Enkidu, finché il nono, vegliato dal suo amico, muore. Disperato Gilgamesh lo piange, e impone il lutto a tutta la nazione. Grande è il dolore per la perdita dell’amico, e grande è la paura che ‘forse’ anche lui dovrà morire.

Pensa così che l’unica soluzione è quella di diventare immortale, e parte alla ricerca di Utnapistim, che abita alla bocca dei due fiumi, l’unico che si è salvato dal diluvio e che gli Dèi hanno fatto diventare un dio, pensando che lui saprà come renderlo immortale. Parte, e dopo molto tempo arriva alla Porta del Sole Tramontante sul monte Masu, che gli viene aperta dai guardiani, gli Uomini-Scorpione. Viaggia dodici ore nel buio di un sotterraneo, poi finalmente irrompe la luce del sole; spossato, si ferma in riva al mare dalla ninfa Siduri, colei che fa il vino e la birra, che inizialmente cerca di distoglierlo dall’impresa ma che poi lo aiuta indicandogli che il barcaiolo Ursanabi può condurlo da Utnapistim.

Salpano quindi, e attraversano le Acque della Morte, e dopo 120 remate arrivano da Utnapistim detto “Il Lontano”, che vive nel luogo del transito del sole, a est della montagna. Qui “Il Lontano” gli racconta di come si salvò dal diluvio. Ma Gilgamesh vuole l’immortalità, e Utnapistim gli dice che deve stare sveglio sei giorni e sei notti, così avrà l’immortalità.
Ma Gilgamesh è troppo stanco dal viaggio e subito si addormenta.

Al risveglio si dispera per non aver avuto la forza di resistere al sonno, al che Utnapistim, mosso a compassione, gli rivela il segreto degli Dèi, e cioè che in fondo al mare esiste una pianta che dà l’immortalità. Subito Gilgamesh si getta nel profondo dell’Oceano, trae a sé la pianta, ma non la mangia subito perchè vuole farne dono anche agli altri uomini di Uruk. Così si incammina e ritorna dalla porta da cui era entrato.
Lungo la strada vede un pozzo; è stanco e vuole rinfrescarsi; appoggia quindi la pianta su di una pietra e fa il bagno; ma all’improvviso un serpente, attratto dal profumo della pianta, esce dall’acqua e la ghermisce, e subito si spoglia della sua pelle e ritorna al pozzo. Gilgamesh si siede e piange la perduta immortalità. Affranto, ritorna a mani vuote a Uruk, e su una pietra l’intera storia incide.


Un Viaggio Astrologico

Che l’EPOPEA DI GILGAMESH vada collocata sulle vie del cielo anziché relegarla tra monti e paludi terrestri lo si deduce sia dai luoghi in cui la scena è inserita sia dal tipo di personaggi che via via il nostro eroe incontra. Non solo; possiamo sapere anche l’epoca in cui questa storia si svolge, e lo capiamo quando la dea Ishtar manda il Toro Celeste contro Gilgamesh, al quale poi Enkidu strappa la coscia e il membro; il Toro Celeste altri non è che la costellazione del Toro, costellazione che non è rappresenta da un toro intero ma tagliato a metà alla vita, mancante appunto della parte posteriore.

Quindi, questa scena vuole raccontarci il passaggio dall’ERA DEI GEMELLI (qui rappresentati da Gilgamesh ed Enkidu) all’ERA DEL TORO (poco dopo infatti Enkidu muore e il Toro Celeste, così menomato, viene assunto in cielo in mezzo alle stelle!), ciò che avvenne intorno al 4.499 a.C.
È quindi, questa, una storia ‘celeste’, e lo si deduce anche dalla serie di personaggi che la popolano; prendiamo ad esempio il Guardiano della Foresta di Cedri, quel mostro Khumbaba ucciso dai due amici: ebbene, i testi lo definiscono un dio, e pare corrispondere al dio elamitico Hmba, che addirittura è inserito in un elenco sumero di stelle col determinativo mul che precede appunto il nome delle stelle: mul Hmba, quindi, che era poi il nome con il quale i Sumeri chiamavano la stella Procione, l’alfa della costellazione del Cane Minore, stella che questo popolo aveva annoverato fra quelle della costellazione del Cancro. Non solo: la stella mul Hmba, poi, era rappresentante, tra i pianeti, di Mercurio.

Altro elemento interessante il fatto che per entrare nella Foresta di Cedri i due devono passare attraverso una porta! Ma che ci fa una porta in una foresta? La porta è sempre un passaggio fra due stadi, fra due mondi, fra il qui e il là. Abbiamo poi visto che Khumbaba corrisponde alla stella Procione, stella che si trova vicino alla costellazione del Cancro. Tutto questo sarebbe un arcano inghippo se non sapessimo che nel Cancro noi troviamo una delle Porte dello Zodiaco (l’altra è in Capricorno), ovvero la Porta dalla quale si incarna il genere umano (mentre da quella del Capricorno si incarnano gli Dei). È quindi un viaggio a ritroso quello che intraprendono Gilgamesh ed Enkidu: dalla Terra degli Uomini a quella del Cielo, passando per la Porta della Foresta di Cedri, appunto il Cancro.

Gilgamesh_Khumbaba

Altresì interessante notare che uno degli appellativi di Khumbaba era “dio della fortezza di intestini“, ciò che ha fatto pensare ad alcuni studiosi che egli fosse l’abitante e il signore del labirinto, ovvero un predecessore del più famoso Minotauro. In un bassorilievo raffigurante Khumbaba (vedi foto), vediamo la sua faccia che sembra appunto fatta di intestini, raffigurata com’è da un’unica linea sinuosa, faccia che ha forti rassomiglianze con quella del dio messicano Tlaloc, il “dio della pioggia“: qui, invece di un’unica linea sinuosa, abbiamo due serpenti che, attorcigliandosi l’un con l’altro, ‘formano’ la faccia del dio, che così assomiglia al Caducèo di Ermes-Mercurio.

Quindi il Caducèo, il volto di Tlaloc e l’idea di un “dio degli intestini”, non possono che indicarci Mercurio (consideriamo che questo pianeta, astrologicamente, ha il suo dominio, oltre che in Gemelli, anche in Vergine, Segno che nella Medicina Astrologica corrisponde agli intestini). Ma che c’entra Mercurio con il Cancro? Nell’antichità Mercurio era considerato un dio lunare, e aveva forti rassomiglianze con il dio lunare egizio Thot, colui che aveva insegnato la scrittura agli uomini. Non solo: in Egitto, nella tomba del faraone Men-Maat-Ra-Sethi I, figlio di Ramesse I, troviamo menzionato il pianeta Mercurio come “Stella del Nord del Cielo“, e comunque come Signore del Secondo Decano del Quarto Segno, appunto il Cancro, che nella raffigurazione zodiacale rappresenta il Nord.

Altri personaggi che ci danno un’ulteriore prova della collocazione astrale di questo mito, sono Utnapistim il Lontano, ovvero il Noè mesopotamico, che ha la sua dimora alla “bocca dei fiumi”, e Siduri, l’ostessa divina.
Si racconta che Gilgamesh giunse al passo del monte Masu, alle cui porte facevano la guardia gli Uomini-Scorpione. Consideriamo che Masu vuol dire gemelli, e che tra le stelle ‘masu’ babilonesi troviamo la lambda e la ipsilon Scorpii, ovvero le stelle gemelle del pungiglione dello Scorpione. Il monte Masu rappresenta quindi, nell’astronomia babilonese, la zona compresa tra la fine della costellazione dello Scorpione e l’inizio di quella del Sagittario, zona celeste in cui troviamo niente meno che il Centro della Galassia, luogo dal quale si diceva passavano le anime nel loro iniziale cammino post-mortem, ed è da lì che inizia, si legge nel testo, “un’oscurità che nessuno ha mai percorso“.
Del resto sappiamo che, astrologicamente parlando, nello Scorpione, ottavo Segno analogico all’ottavo settore oroscopico, viene rappresenta la morte del corpo fisico; interessante notare che se la vita inizia in Ariete, primo Segno, la morte non è, come ci si aspetterebbe, nell’ultimo Segno, cioè i Pesci, bensì, come visto, nell’ottavo. Da lì, infatti, vi sono altri quattro Segni che in pratica rappresentano il cammino e il processo evolutivo che l’anima deve compiere prima della sua rinascita in un nuovo corpo nel Segno dell’Ariete. Siamo quindi nel mondo delle tenebre, e Gilgamesh, come dice il testo, viaggia per dodici ore in un tunnel sotterraneo prima di vedere irrompere la luce del sole.

Finalmente il nostro eroe arriva in un giardino di pietre preziose: qui incontra Siduri, l’ostessa divina. Il personaggio Siduri è stato accostato da vari studiosi a quei personaggi che in molti poemi epici hanno il compito di assistere le anime nel momento della loro dipartita dal corpo, come ad esempio la monaca Gertrude nella cui locanda passavano le anime la prima notte dopo la morte. Siduri dà a Gilgamesh alcuni consigli su come arrivare al luogo in cui abita Utnapistim; prima di tutto dovrà trovare Ursanabi, il traghettatore, perché sarà lui ad accompagnarlo nel Mare della Morte. Ora noi dobbiamo considerare che ci sono stati tramandati dei nomi di costellazioni che suonano come Ade o Il Traghettatore: questi nomi noi li troviamo tra lo Scorpione e il Sagittario, dove prima avevamo visto il Centro Galattico. Si può pensare che Siduri e il traghettatore Ursanabi trovino la loro ‘casa’ in questi luoghi.

Ursanabi dice a Gilgamesh di tagliare 120 pali che gli serviranno per spingere avanti la barca, così che le sue mani non tocchino le acque della morte. In pratica ogni palo serve per una remata, stimando così che per arrivare a destinazione ci vogliono 120 remate: consideriamo che dallo Scorpione, punto di partenza di questo viaggio di Gilgamesh alla ricerca della pianta della rinascita, fino ai Pesci, dove si presume viva Utnapistim, ci sono quattro Segni, ovvero 120°! Finalmente Gilgamesh arriva dinanzi a Utnapistim, che è poi, come detto, il Noè mesopotamico, e che gli racconta del Diluvio, di come Enki, dio delle acque, della sapienza e creatore dell’umanità, lo avesse avvertito della decisione di Enlil, dio della terra e del vento, di distruggere l’umanità, e di come costruire l’Arca. Questa misurava un acro (un iku) di spazio piano, e altrettanto per ciascun lato, così che l’Arca era in pratica un cubo. Ovviamente il diluvio fu spaventoso, a tal punto che Enki redarguisce Enlil il quale poi si scusa con Utnapistim e sua moglie, concedendo loro di essere come Dèi e di abitare “alla bocca dei fiumi”.

Questa “bocca dei fiumi” era il nome dato alla città di Eridu, a sua volta associata, e comunque rappresentante ‘terrestre’, della stella Canopo, l’alfa della costellazione della Carena, stella che secondo i babilonesi reggeva le profondità dell’Apsu, l’oceano d’acqua dolce che aveva forma di cubo, e l’Arca era anch’essa fatta a somiglianza dell’Apsu, visto che era un cubo e misurava “un iku” per lato.
Per capire l’importanza di quanto ora detto, consideriamo che questa misura, “un iku“, era il nome che i babilonesi davano al Quadrato di Pegaso, costellazione che, ‘guarda caso’, è racchiusa in quella dei Pesci.

Da quanto ora esposto vediamo come il viaggio di Gilgamesh sia stato un viaggio celeste, “lungo la via del sole”, l’eclittica. Altre cose sarebbero da dire sui nascosti (ma poi non tanto) risvolti celesti nell’Epopea di Gilgamesh. Basti per ora sapere che ogni mito, ogni ‘caduta’, ogni ‘misurazione’, è la descrizione di quelle ‘correzioni’ che si debbono attuare ogniqualvolta il cielo muta, ogniqualvolta cioè vi è da rimettere a posto l’orologio cosmico.


[1] G. de Santillana e H. von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano 1983.

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