Il direttore del carcere (raccontino semiserio).

Il direttore del carcere (raccontino semiserio).
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«Perché si nasce se poi si deve morire?»
Questa domanda me l’ha fatta ieri mio nipotino, così, a bruciapelo. E ora che gli racconto? E sì che a pensarci bene la domanda, come si suole dire, non fa una piega: chiara, logica, precisa, tagliente e… giusta. Sì, giusta. Almeno per me, per voi non so.
Dico per me perché questa domanda me la sono posta anch’io e credo la prima volta grosso modo sull’età di mio nipote. E non una volta sola. Ma cerca qui, cerca là, la risposta non mi è mai venuta. O meglio: me ne venivano alcune ma erano o contraddittorie o non appaganti.

Mi ricordo che ero alle elementari, per la precisione in quarta. Una sera, prima di addormentarmi, rimuginavo su queste faccende, sulla vita e sulla morte: era da poco morto un mio zio ‒ la prima volta che facevo esperienza di una morte ‒ ed ero ancora un po’ frastornato. Soprattutto riflettevo sul senso della vita: perché si nasce, se c’è un motivo, un fine. Mi addormentai. E ovviamente sognai.
Questo il sogno che feci all’epoca dopo aver rimuginato sul senso della vita.

Cammino sul marciapiede, per i fatti miei, quando di là dalla strada vedo un uomo con una pala in mano. Alla sua sinistra una buca profonda e alla sua destra un cumulo di terra che vista la quantità doveva certamente provenire da quella buca. L’uomo sta prendendo con la pala la terra e la sta gettando nella buca.
«Salve. Che sta facendo?»
Mi guarda. Uno sbuffo. «Guardi che non è giornata.»
«Ma io volevo solo sapere quello che fa.»
«Ma è cieco, per caso? Non lo vede quello che faccio.»
«Mah, se me lo dice si fa prima.»
Risbuffo. «Ma non lo vede che sto riempiendo la buca?»
In effetti era quello che faceva: stava riempiendo una buca.
«E perché la sta riempiendo?»
Mi guarda come si guarda un mentecatto, come se avessi chiesto, che so, perché respira? Quindi non mi risponde.
«Vedo che sta riempiendo quella buca ma mi domandavo il perché, se c’è un motivo.»
«Ma dove vive? Che sono domande da farsi, queste?»
«Allora?»
«Caro il mio rompiscatole, ma se non avessi fatto la buca mi dice come facevo poi a riempirla?»
Avete sentito anche voi, vero? Ha fatto la buca per poterla poi riempire. Buona, questa.
«Sul serio, via: me lo dice o no perché sta riempiendo quella buca?»
«Ma c’è o ci fa? Gliel’ho già detto. Riempio questa buca perché l’ho fatta. L’ho fatta e ora la devo riempire.»
«Via, su, sia serio. O che è una risposta, questa.»
«Non è una risposta. È la risposta. Va bene?»
«Mi scusi, eh. Lei mi sta dicendo che ha fatto una buca per poterla poi riempire?»
«Ovvio. Ma dove viene? Le buche vengono fatte perché poi devono essere riempite. Più ovvio di così…»
“Le buche vengono fatte perché poi devono essere riempite”. Ho sentito bene? Le buche vengono fatte perché poi devono essere riempite? Allora è proprio scemo. Che assurdità.
«Guardi, forse quello che sto per dirle le farà male o la manderà in confusione ma è giusto che glielo dica; così, sa, magari per le altre volte… Volevo dirle che forse, ma ripeto forse, si sarebbe risparmiata tutta questa fatica del fare la buca per poi riempirla se la buca non la faceva proprio così era già riempita di suo».
Occhi sgranati, anzi, spalancati, e anche la bocca spalancata. Mi sta guardando come si guarda un marziano – che non so come lo si guarda perché non ho mai incontrato un marziano ma se lo si incontrasse lo sguardo sarebbe quello.
«Ah, ah, ah, ah! Questa è buona. Non fare la buca, mi dice. Ma da dove viene. Le buche si devono fare e quando le hai fatte allora sei obbligato a riempirle. Tutti fanno le loro buche e ognuno se le deve riempire.»
Sono senza parole. Mi giro per andarmene… e mi sveglio.

Avete capito il significato?
Certo non si può dire che in quel periodo avessi dei bei pensieri. Nascere, vivere… per poi morire: mi sembrava assurdo, come fare una buca al solo scopo poi di riempirla. Si faceva prima a non nascere, mi dicevo, ovvero a non fare la buca: sai quanta fatica e problemi risparmiati! Quindi il tutto mi sembrava insensato, nella migliore delle ipotesi buffo. Sì, buffo. Ridicolo. Inutile.

Mi sembrava poi che vivere fosse come essere in carcere, ovviamente un carcere talmente grande che non vedi il muro di cinta e quindi non ti sembra di essere in carcere. E quando sei in carcere che fai? Beh, i primi giorni puoi startene anche in cella a fissare la parete, magari anche la prima settimana o il primo mese ma poi o diventi pazzo o ti trovi qualcosa da fare; quindi c’è chi va a lavorare nella lavanderia del carcere, chi lo mettono a fare pulizie, chi invece si mette a studiare e riesce a prendere anche una laurea. Insomma, ognuno cerca di passare il tempo di quegli anni che deve stare in carcere.

Come la vita, no? Ognuno trova la sua occupazione per poter vivere in attesa della fine. E il senso dov’è? Ecco che allora bisogna darle un senso. Ci vuole un fine, un qualcosa per cui uno possa dire: «Ah, ecco perché sono qui. Mi pareva strano che non ci fosse un motivo. Che diamine, mica mi hanno fatto nascere così, tanto per fare. Se IO sono qui ci sarà un buon motivo». Mi veniva da pensare che forse era proprio per questo che erano nate le religioni.

Comunque a questo punto i casi sono due: o la vita è inutile o è utile; o c’è un fine o non c’è un fine. Se c’è allora bisogna mettere in campo l’esistenza di Dio – o quello che volete ‒ ma se il fine non c’è allora siamo solo… che cosa?

In ogni modo, sia quel che sia – mi dicevo ‒, dobbiamo stare qui sulla Terra un po’ di anni in attesa di sparire e nell’attesa dobbiamo fare qualcosa: come in carcere.
Ecco, la vita sembra una parodia del carcere: anche lì ci sono le gerarchie, ci sono i capibanda, ci sono i soprusi, ci sono delle regole imposte… Però, un momento: se siamo in carcere allora ci sarà anche un direttore del carcere. Eccolo Dio! Il Direttore del carcere.


Foto: Nikolaj Aleksandrovič Jarošenko (1846-1898), “Il prigioniero”, 1878, Galleria Statale Tret’jakov, Mosca.