Il trattato sui geroglifici di Orapollo l’Egiziano

Il trattato sui geroglifici di Orapollo l’Egiziano
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Nel 1419 il geografo e monaco fiorentino Cristoforo Buondelmonti (1386-1430) acquistò nell’isola greca di Andros, per conto di Cosimo de’ Medici il Vecchio (1389-1464), un manoscritto tradotto in greco da certo Filippo dal titolo “Hieroglyphica“, il cui autore era conosciuto sotto il nome di Horus-Apollo o Horapollo, un personaggio non ben identificato ma che si pensa possa essere Orapollo Niloo, uno scrittore e sacerdote egiziano nativo di Nilopoli (Delas), una città a una ventina di chilometri a sud del Cairo, che fu l’ultimo capo della scuola pagana della città sacra di Menouthi ‒ “Madre di Dio”, città dedicata a Iside ‒, vicino ad Alessandria, durante il regno dell’imperatore romano d’Oriente Zenone (474-491 d.C.).

Nel 1422 questo testo arrivò alla corte medicea e venne subito tradotto[1]. Fu così che l’Occidente venne per la prima volta a conoscenza di un’opera ‒ creduta dagli umanisti antichissima ma che si è poi rivelata essere un assemblaggio di nozioni elaborate nel V secolo d.C. ‒ che generò subito un vasto interesse perché vi si trattava dei geroglifici egiziani interpretati però dal lato simbolico-sacrale e visti come una lingua sapienziale, una lingua che, si diceva, era stata inventata da Ermete Trismegisto e che si credeva avrebbe permesso la scoperta della vera natura delle cose del creato, l’intimo e atavico significato delle stesse, il loro vero nome quindi la loro essenza divina.

In pratica trattava dell’antica lingua egizia vedendola come una lingua archetipale, una lingua filosofico-sapienziale, la prima parlata dagli esseri umani prima della distruzione della torre di Babele, quella di cui parla la Bibbia: «Or tutta la terra era un labbro solo e uguali imprese» (Genesi, 11:1) ma che poi Dio, per punire l’arroganza degli uomini, «[…] mescolò il labbro di tutta la terra e di là il Signore li disperse sulla superficie di tutta la terra» (Genesi, 11:9).

Divisa in due libri, l’opera tratta di 189 geroglifici ognuno interpretato secondo la sua immagine e cosa essa significa, interpretazione dietro la quale, a ben leggerla ‒ si diceva ‒, si poteva accedere a un antico sapere iniziatico esoterico-astrologico che avrebbe dischiuso davanti agli occhi dell’attento ricercatore i misteri del creato[2].

Per esempio si legge che per indicare il concetto di “eternità” usavano il Sole e la Luna o, diversamente, un serpente con la coda nascosta sotto il resto del corpo. Si tratta in pratica dell’ourobòros, il serpente che morde la propria coda.
Si legge poi che per indicare la parola “figlio” ovvero colui che ama il padre disegnano una cicogna perché essa non si allontana mai dai suoi genitori e li nutre e li accudisce fino alla loro morte; la parola “compassione” è rappresentata dalla figura di un avvoltoio perché questo uccello nutre i suoi piccoli con il proprio sangue; per il verbo “aprire” disegnano una lepre perché è un animale che tiene sempre gli occhi aperti; per rappresentare un “profeta” disegnano un cane perché è il solo fra tutti gli animali che tiene fisso lo sguardo verso le statue degli dèi.

Concetti semplici, a volte immaginifici o non reali, ma proprio per questo ‒ si diceva ‒ nascondevano sicuramente un significato esoterico che proprio per questo andava letto con altri occhi andando oltre la loro apparenza.

Il testo esercitò un’enorme influenza fra i letterati e gli artisti, da Tiziano a Marsilio Ficino, da Hieronymus Bosch a Giordano Bruno, da Albrecht Dürer a Erasmo, da Giorgione a Leon Battista Alberti, da Andrea Alciato a Pierio Valeriano.

In special modo questi ultimi due si cimentarono in opere che ricalcavano quella di Orapollo: Andrea Alciato (1492-1550), giureconsulto milanese, scrisse “Emblematum liber“, pubblicato per la prima volta ad Augusta in Germania nel 1531 e che ebbe molte edizioni e molta risonanza e successo in tutta Europa, opera dove trovano posto figure, simboli e allegorie riprodotte in xilografie e spiegate con epigrammi; non manca una poderosa tirata d’orecchi agli astrologi, qui paragonati a Icaro che troppo volle salire in alto: sotto la figura, rappresentante un astrologo che guarda le stelle, le seguenti parole:

Icare, per superos qui raptus et aera donec
In mare praecipitem caera liquata daret.
Nunc te caera eadem, fervensque resuscitat ignis,
Exemplo ut doceas dogmata certa tuo.
Astrologus caveat quicquam praedicere preceps,
Nam cadet impostor dum super astra vebit
[3].

Per quanto riguarda Pierio Valeriano (vero nome Giovanni Pietro Dalle Fosse, 1477-1558), umanista, teologo e poeta bellunese, questi fu autore di un’opera assai famosa sui geroglifici dal titolo: “Hieroglyphica, sive de Sacris Aegyptiorum aliarumque gentium literis, commentariorum libri LVIII“, stampata a Basilea nel 1556 e dedicata a Cosimo I de’ Medici duca di Firenze.
L’opera, veramente immane e completa, è composta da 58 libri (capitoli) ognuno dei quali è dedicato e indirizzato a una personalità e dove in ognuno tratta un argomento diverso ovvero descrive ora un animale, ora una pianta, ora una parte del corpo, ora un oggetto sviscerando il tutto sia dal lato naturale che storico che simbolico/archetipale, in quest’ultimo caso appoggiandosi alle lettere egizie che testimoniano dell’animale o dell’oggetto e al loro supposto significato esoterico: così, ad esempio, il primo capitolo, dedicato a Cosimo I de’ Medici, tratta del leone; il secondo, dedicato al cardinale Guido Ascanio Sforza, tratta del rinoceronte e dell’elefante; e così via, trattando e spiegando il significato simbolico ed esoterico di animali, piante, cose ed oggetti: dalla tortora al papiro, dai fagioli alla Luna e il Sole, ecc.

Per esempio per quanto riguarda l’emblema del Sole (Libro XLIIII, p. 324r) questo è spiegato nelle sue varie accezioni e/o raffigurazioni simboliche, quindi Sole come Unità, come Verità, come Cristo, come Penitenza, come Chiarezza, come Buon Governo, come Vita Umana, ecc.

L’emblema della Stella (Libro XLIIII, p. 331r), invece, indica il fato, il destino, qui definito una “siderali dispositione” ovvero il fato, attraverso il movimento degli astri, influenza gli accadimenti terreni e ciò può essere studiato attraverso le disposizioni astrologico-zodiacali di ognuno.
Valeriano poi conclude dicendo che «nihil enim aliud est hieroglyphice loqui quam divinarum humanarumque rerum naturam aperire» (Libro LIII, p. 391r)[4].


[1] Ma la prima edizione a stampa fu quella pubblicata da Aldo Manuzio a Venezia nel 1505 (editio princeps) dal titolo: “Ori Apollinis Niliaci Hieroglyphica“.
[2] Ovviamente un’interpretazione simbolica, soggettiva e a tratti molto fantasiosa quella di Orapollo, niente a che vedere con il reale significato dei geroglifici non essendo ancora stata scoperta la Stele di Rosetta (1799) che permetterà la loro reale decifrazione e lettura.
[3] «Icaro, tu che per l’alto e per l’aria fosti portato, finché la cera sciolta ti diede a capofitto al mare, ora la stessa cera e l’ardente fuoco ti ravvivano, affinché con l’esempio ci insegnassi le tue lezioni. Che l’astrologo stia attento a predire qualsiasi cosa perché l’impostore cadrà mentre si libra sopra le stelle».
[4] «nient’altro è parlare in geroglifico che rivelare la natura delle cose divine e umane».